Continua la protesta dei migranti etiopi dal Cara di Mineo. Ospiti del Centro di accoglienza richiedenti asilo, stanno ‘marciando’ verso Catania percorrendo la strada statale 417, che collega il capoluogo etneo e Gela e chiusa al traffico nelle due direzioni di marcia.
La protesta dei migranti scaturisce anche stavolta dai ritardi nella concessione dello status di rifugiato politico o del permesso di soggiorno. Nella struttura, secondo fonti sindacali della polizia, ci sarebbero poco meno di 3.000 persone, di diverse nazionalità e etnie a fronte di una capienza prevista di circa 1.700-1.800 migranti.
Situazione che contribuisce ad esasperare e ad accendere gli animi. Tensione che più volte è sfociata in atti di violenza. Negli scontri di martedì scorso sono rimasti feriti dieci militari della Guardia di Finanza. Oggi la nuova protesta, alla quale avevano aderito inizialmente diverse centinaia di extracomunitari.
Attualmente il ‘corteo’ è arrivato in territorio di Palagonia.

Lo afferma il sindacato di polizia Siap dopo lo scontro tra ospiti del Cara e forze dell’ordine, che ha provocato una decina di feriti tra gli investigatori. Il Siap “denuncia l’inspiegabile ritiro di uomini e mezzi a garantire il minimo indispensabile, portando il contingente dei già insufficienti 50 operatori a 30 uomini, e il taglio drastico degli straordinari per l’emergenza Nord Africa, come se l’emergenza fosse finita”.”E mentre gli sbarchi continuano – aggiunge il sindacato di polizia – il Cara si è trasformato in centro di accoglienza”. “E se l’agognato passpartout non arriva – ricostruisce il sindacato di polizia – fa scatenare le ire che sfociano in aggressioni gratuite, con violente proteste mirate a fare solo danno a poliziotti o finanzieri. Se poi a facilitare le cose – conclude il Siap – si ci mette pure il Dipartimento ritirando gli uomini e lasciando il fortino sguarnito la frittata è fatta”.
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Il gornalista di RaiNews24 Roberto Secci continua la sua inchiesta nei Centri di detenzione italiani. Questa è la seconda puntata andata in onda il 7 gennaio. Il giornalista è entrato in visita al Cie di Bari con la campagna LasciateCIEntrare. Buona visione.
Di Elisa Tarsia
“Non siamo animali, siamo persone”.
Quest’anno il premio Nobel per la pace è stato assegnato all’Unione europea per aver contribuito “All’avanzamento della pace, della riconciliazione, della democrazia e dei diritti umani in Europa”. Ma nel momento in cui si parla di diritti umani, non può non tornare a tormentarmi la disperazione palpabile che segnava i volti dei giovani “prigionieri” incontrati lo scorso 17 dicembre durante la mia visita al CIE di Bari. La struttura ospita 108 migranti, per lo più tunisini e marocchini, molti di loro residenti in Italia da parecchi anni e strappati all’affetto di mogli e figli dopo aver perso il lavoro e quindi il permesso di soggiorno.
Sono le tre di pomeriggio e noi attivisti delle Campagne “LasciateCIEntrare” e “Class Action Procedimentale” ci incontriamo di fronte all’ingresso del CIE di Bari, dove troviamo ad accoglierci il personale che gestisce il centro assieme al Vice Questore aggiunto della città. C’è tensione nell’aria ed è evidente l’imbarazzo di coloro i quali sono a tutti gli effetti artefici dell’ alienazione di vite umane. Inizia il giro; dopo una serie di confuse premesse, frasi contraddittorie e risposte date a metà salta subito agli occhi l’intento, da parte del personale del CIE, di mascherare con dell’intonaco appena passato e i riscaldamenti appena accessi il degrado di quel luogo, che non è più camuffabile una volta riusciti a svincolarci dal giro visita apparecchiato ad arte dai gestori della struttura e ad entrare nel secondo modulo del CIE, a diretto contatto con l’inferno quotidiano di persone che non hanno commesso alcun reato.
Chiunque, almeno una volta nella vita, dovrebbe entrare in un CIE perché basta uno scambio di sguardi con gli uomini e i ragazzi rinchiusi tra le mura di quello che sembra essere un carcere di massima sicurezza, per comprendere l’assurdità di una realtà che appartiene all’Italia nonostante sia così lontana dai principi su cui si basa uno stato democratico; per comprendere come concetti quali multiculturalità, accoglienza e integrazione in realtà non sono altro che retoriche di buonismo di una proclamata democrazia; per desiderare con tutta la propria forza un cambiamento di mentalità nel nostro Paese e per sentirsi mossi dalla necessità impellente di denunciare la tortura.
Mi è ancora più chiaro, infatti, dopo l’ispezione al CIE di Bari, di come i CIE siano dei luoghi di tortura, luoghi in cui non regna nessuna morale se non quella razzista che legittima l’accanimento istituzionale contro uomini, donne e bambini che non vorrebbero altro che un futuro migliore, un lavoro, una famiglia, una vita dignitosa o anche solo una possibilità; luoghi in cui, a causa della difficoltà normativa e burocratica di accedere alla regolarità, i migranti vengono privati dei più elementari diritti e persino della loro personalità.
Personalità che, come ho avuto modo di constatare proseguendo la mia visita dal primo al quarto modulo, viene forzatamente alienata attraverso la somministrazione elevata di psicofarmaci e calmanti, utili solo a ridurre gli uomini allo status di non persone col pretesto, invece, di aiutarli a combattere lo stress e la rabbia. Questa la giustificazione di Emanuele Barracchia, lo psichiatra presente nel centro al momento della nostra ispezione che dichiara che solo un 1% su 108 ospiti fa uso di psicofarmaci, percentuale che si discosta nettamente da quanto emerge dalle dichiarazioni dei “prigionieri”. Continuiamo il nostro giro e ci accorgiamo che i segni della rabbia contro l’ingiustizia subita sono ancora impressi sui muri del CIE di Bari, in particolare sul soffitto del modulo due, uno tra quelli non ancora ristrutturati e che, annerito dalle fiamme, racchiude la memoria di una recente rivolta. Il modulo tre sembrerebbe invece off limits, i detenuti battono forte i pugni contro il portone blindato che li separa da noi ma il personale è restio nel farci entrare, sostenendo che la tensione dei “prigionieri” sia dovuta alla promessa non mantenuta di una partita di calcio. Con insistenza riusciamo ad entrare e scopriamo che di partite di calcio non si è mai parlato, persino uscire al di là dei piccoli cortiletti circondati da alte sbarre e occupati da file di panni stesi ad asciugare, è sempre stata un’utopia per i migranti, privati molto evidentemente della propria libertà. Ciò vuol dire condurre un uomo alla pazzia: “Qui diventiamo pazzi!”. È questo, infatti, che i detenuti ripetono a gran voce, nonostante sia per loro difficile parlare liberamente date le minacce e le pressioni subite da parte dei gestori del centro nel tentativo di mascherare l’agghiacciante verità agli occhi di noi visitatori.
Tentativo chiaramente fallito proprio perché per descrivere quella realtà non c’è stato neanche bisogno di parole: bagni e docce fatiscenti, muffa alle pareti, malessere diffuso ed evidente; erano in parecchi, inoltre, a lamentare un continuo e insopportabile prurito che faceva pensare ai sintomi della scabbia e che denunciava, quindi, carenze dal punto di vista dei servizi medici. Nel Cie di Bari il tempo è vuoto: “Non una penna né un foglio per scrivere, non un libro per leggere”, lamentavano alcuni, “Non un’asciugamano pulita per farsi la doccia”, lamentavano altri, ma soprattutto non un perchè, ed è questo che conduce alla pazzia i non uomini sequestrati alla vita e rinchiusi nel CIE: l’assenza di una motivazione plausibile e accettabile che giustifichi quel disumano trattamento.
Ma, a proposito di perché, ecco la domanda che mi è sorta spontanea non appena messo piede fuori da quella prigione: perché non introdurre in Italia il reato di tortura invece di continuare a legittimarla?