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Il Tribunale Permanente dei Popoli è stato convocato a Palermo per esaminare se le politiche e le prassi adottate dall’Unione europea e dai suoi Stati membri, a cominciare dall’Italia, costituiscano violazione del diritto dei popoli e delle persone migranti e rifugiate.

Il dibattimento, che si terrà 18-19 dicembre - registrazione ore 8.30, apertura della sessione ore 9.00 - sarà ospitato nel Plesso Didattico Bernardo Albanese (Piazza Napoleone Colajanni) e sarà aperto al pubblico. La sentenza sarà pronunciata mercoledì 20 dicembre dalla Giuria del Tribunale.

Il 18 dicembre 2017- in occasione della ricorrenza della data di approvazione (18.12.1990) da parte delle Nazioni Unite della Convenzione per la tutela dei diritti di tutti i lavoratori migranti e della loro famiglie – si aprirà a Palermo, capitale della cultura dell’accoglienza, la prima sessione del Tribunale Permanente dei Popoli dedicata alla violazione del diritto di migranti e dei rifugiati che attraversano il Mediterraneo, confine meridionale dell’Europa, ridotto a cimitero degli orrori. La seconda sessione si terrà a Parigi il 4 e 5 gennaio 2018 e avrà ad oggetto le frontiere interne dell’Unione europea, con le connesse politiche e prassi di chiusura dei vari Stati membri.

La sessione

Il TPP, tribunale internazionale di opinione, ha accolto la richiesta – formulata a Barcellona nel luglio scorso dal Transnational Institute di Amsterdam e dal Transnational Migrant Platform-Europe e da una vasta rete di associazioni e di organizzazioni non governative, con l’adesione di oltre cento associazioni e movimenti europei, insieme a numerose comunità di migranti – di esaminare se le politiche e le prassi adottate dall’Unione Europea e dai suoi Stati membri, a cominciare dall’Italia, costituiscano violazione del diritto dei popoli e delle persone migranti e rifugiate. Si tratta di crimini e responsabilità complesse ma dimostrabili e in questa occasione testimoni diretti ed esperti sono chiamati a presentare le loro analisi e prove alla giuria internazionale convocata dal Tribunale, con testimonianze, tra gli altri, a cura di Sea-Watch, MEDU, Borderline Sicilia, Baobab Experience e LasciateCIEntrare.

È tempo di parlare! 

La rilevanza e attualità dell’udienza di Palermo, sottolineata, richiesta e sostenuta da un gran numero di organizzazioni sociali italiane e internazionali, è purtroppo confermata, anche in queste settimane, dal susseguirsi di tragiche notizie di naufragi, morti in mare, respingimenti, detenzioni arbitrarie e maltrattamenti. Una situazione che, secondo l’Alto commissario per i diritti umani dell’ONU, Zeid Ra’ad Al Hussein, è divenuta catastrofica, segnata da immani sofferenze cui sono sottoposte migliaia di uomini, donne e bambini, tanto da costituire un “oltraggio all’umanità”. Dinanzi alla “moderna schiavitù, alla tortura, alla violenza sessuale” di fatto realizzate nella “gestione” del fenomeno migratorio, l’Alto commissario ha affermato che non si può più rimanere in silenzio.

Es tiempo de hablar! Questo è l’impegno del TPP, assunto a Barcellona da Carlos Beristain, componente del Tribunale, ricordando il monito di un anziano guatemalteco all’avvio del processo di ricostruzione della memoria storica delle vittime della violenza politica e istituzionale in Guatemala. Anche per i migranti e i rifugiati è giunto il momento di parlare e di portare alla luce la verità sulle migrazioni, per valutare le politiche e le prassi dei governi europei con riferimenti ai diritti umani e dei popoli, per riformulare prospettive di civiltà dinanzi alla tragica perdita di umanità che si sta consumando sotto i nostri occhi.

È questa una delle funzioni principali del Tribunale, competente a pronunciarsi su violazioni gravi e sistematiche dei diritti umani e dei popoli, sulla base della Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli (Algeri, 1976), che ha orientato le 44 sessioni realizzate dal Tribunale dal 1979.


Il Tribunale Permanente dei Popoli

Il Tribunale Permanente dei Popoli (TPP) è una istituzione fondata nel 1979 da Lelio Basso, come strumento di visibilità e presa di parola per quei popoli vittime di violazioni dei diritti fondamentali enunciati nella Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli (Algeri, 1976), marginalizzati dal diritto internazionale, che con i suoi esperti da tutto il mondo esaminando cause e modalità di tali violazioni, denuncia all'opinione pubblica mondiale i loro autori, intervenendo laddove "le legislazioni nazionali ed internazionali non difendono il diritto dei popoli”;promuove il rispetto universale ed effettivo dei diritti fondamentali dei popoli, prendendo in esame casi di violazione grave e sistematica dei diritti umani commesse dagli Stati, da autorità non statali, da gruppi o organizzazioni private. Il TPP si pronuncia su crimini di Stato, crimini contro la pace e l’umanità, crimini di genocidio, sulle violazioni gravi e sistematiche dei diritti e delle libertà degli individui, dei popoli e delle minoranze.

La principale funzione del Tribunale è quella sussidiaria, poiché agisce in assenza di una giurisdizione internazionale competente a pronunciarsi sui casi di giustizia dei popoli. Nelle sue Sentenze, il Tribunale non si limita ad applicare le norme esistenti, ma mette in evidenza lacune o limiti del sistema internazionale di tutela dei diritti umani per indicarne linee di sviluppo.


La giuria internazionale della sessione del Tribunale è composta da:

Franco Ippolito, magistrato e Presidente del TPP

Philippe Texier, magistrato francese e vicepresidente del TPP

Carlos Beristain, medico e psicologo spagnolo, esperto di diritti umani e politiche di memoria

Donatella Di Cesare, filosofa, docente all’Università la Sapienza di Roma e alla Normale di Pisa

Luciana Castellina, politica, giornalista e scrittrice

Francesco Martone, esperto in relazioni internazionali, pacifismo e diritti umani

Luis Moita, professore di teoria delle relazioni internazionali – Università Autonoma di Lisbona


Contatti

Tribunale Permanente dei Popoli - Palermo

+39 3274658128

palermotpp@gmail.com

www.tppsessionepalermo.it

Questa non è una petizione; non è un appello.

Come ormai si sa, Gilberto Caldarozzi, ex capo della sezione criminalità organizzata della polizia (Sco), condannato è stato nominato vicedirettore “operativo” (non amministrativo) della DIA, scontata la pena residua di otto mesi (tre anni erano stati oggetto di indulto) in detenzione domiciliare e decorso il termine di interdizione dai pubblici uffici.

I fatti sono noti; fu “la più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale”, come sostenuto da Amnesty International.

Caldarozzi fu assolto in primo grado, e si è sempre proclamato innocente; era, ed è, un suo diritto, che va riconosciuto e tutelato anche durante la fase esecutiva, nella quale dev’essere garantita la funzione costituzionale della pena, volta innanzitutto al reinserimento sociale.

Nessuna pena perpetua, nessun marchio indelebile.

E però, perché non vi sia un non detto, occorre ricordare che nei processi genovesi a carico dei funzionari delle varie polizie lo Stato non si è costituito parte civile.

Occorre ricordare le condanne della Corte EDU, con le quali è stata affermata una “assoluta mancanza di cooperazione della polizia”, si è deplorato il silenzio del Governo sulla richiesta di informazioni sulle sanzioni disciplinari e, per converso, la progressione in carriera di agenti e funzionari coinvolti.

Impunemente, ha ritenuto la Corte, gli imputati hanno ostacolato l’emergere dei fatti, per come loro contestati; al ribasso, impunemente, si è svolto il procedimento disciplinare, con contestazioni non in linea con quelle elevate nel processo, sì da consentire di evitare la destituzione dal ruolo.

Ancora, è impossibile trascurare le dichiarazioni riduttive (“mele marce”) dei vertici di polizia in ordine a quanto inconfutabilmente accaduto all’interno della Diaz e di Bolzaneto, per quella “macelleria messicana” che tutto il mondo ha visto, e per la quale ha provato orrore.

Infine, perché tutto si tiene, non si possono dimenticare le decise contrarietà dei vertici delle forze dell’ordine espresse durante l’iter di approvazione del disegno di legge sul reato di tortura, malgrado le sue eclatanti aporie e lacune convenzionali.

In un caso, nessuno è Stato, poiché le Istituzioni, convitate di pietra, non hanno fatto ingresso nelle aule di Giustizia, a chieder conto delle condotte illecite tenute dagli imputati; viceversa, poiché è “in nome del Popolo italiano” che vengono emesse le sentenze, è lecito chiedersi per quale motivo si sia ritenuto di porre ai vertici della Direzione Investigativa Antimafia chi è stato condannato per fatti gravissimi, in relazione ai quali non ha mai speso una parola di biasimo.

Mancano le parole per dirlo, ma il silenzio fa rumore.

ADERISCONO

1. Michele Passione, avvocato

2. Calderone Valentina, Associazione “A buon diritto”

3. Redazione di Ristretti Orizzonti

4. Alberta Valentina, avvocato

5. Alborghetti Annamaria, avvocato

6. Amato Stefania avvocato

7. Anetrini Mauro, avvocato

8. Balestro Silvia, avvocato

9. Bastianello Alessandro, avvocato ex capo della sezione Criminalità organizzata per falso per i fatti del G8 del 2001 a Genova,

10. Belsito Paola, magistrato

11. Bezzi Gigi, avvocato

12. Borzone Renato, avvocato

13. Botti Bruno, avvocato

14. Bouchard Marco, magistrato

15. Bronzo Pasquale, ricercatore universitario

16. Brucale Maria, avvocato

17. Bruni Roberto, avvocato

18. Buzzi Andrea, traduttore

19. Calcaterra Antonella, avvocato

20. Cappelletti Federico, avvocato

21. Caprara Daniele, avvocato

22. Caputo Giuseppe, ricercatore

23. Caputo Serena, avvocato

24. Carisano Maria Rosa, avvocato

25. Cassano Milena, già dirigente amministrazione penitenziaria, pensionata

26. Cerfogli Duccio, avvocato

27. Cherubino Giuseppe, avvocato

28. Cipriani Stefano, avvocato

29. Ciuffoletti Sofia, ricercatrice

30. Colombo Gherardo, già magistrato

31. Corleone Franco, Garante dei diritti dei detenuti della regione Toscana

32. Corsani Carlotta, avvocato

33. De Caro Elia, Antigone Emilia Romagna

34. De Federicis Alessandro, avvocato

35. De Meo Matteo, avvocato

36. De’ Giudici Marianna, avvocato

37. Dell’Acqua Peppe, psichiatra

38. Fiorio Carlo, professore universitario

39. Gambirasio Monica, avvocato

40. Genovesi Sergio, avvocato

41. Giuffrida Maria Pia, pensionata

42. Grenci Ettore, avvocato

43. Guenci Massimo, avvocato

44. Guido Gabriella, Coordinatrice Campania LasciateCIEntrare

45. Inghilleri Renzo, avvocato

46. Intrieri Cataldo, avvocato

47. Lalatta Costerbosa Marina, professore universitario

48. Lensi Massimo, libero professionista

49. Maggiora Luca, avvocato

50. Maisto Francesco, Presidente emerito Tribunale Sorveglianza di Bologna

51. Manca Veronica, dottore di ricerca

52. Marcolini Stefano, avvocato

53. Maresca Alessandro, avvocato

54. Marin Annamaria, avvocato

55. Matteucci Aurora, avvocato

56. Menegatto Maria Luisa, dottore di ricerca

57. Mercatali Gianna, avvocato

58. Michelini Margherita, Direttrice Casa Circondariale M.Gozzini di Firenze

59. Migliori Saverio, Fondazione Michelucci Firenze

60. Moschioni Monica, avvocato

61. Nigro Michele, avvocato

62. Orlandi Renzo, professore universitario

63. Palandri Sara, avvocato

64. Palena Massimiliano, avvocato

65. Parziale Carmela, avvocato

66. Passanisi Carmelo, avvocato

67. Pecchioni Gherardo, avvocato

68. Pighi Giorgio, professore universitario

69. Pirosa Rosaria, avvocato

70. Pisani Maria Mercedes, avvocato

71. Pisapia Tomaso, avvocato

72. Pisillo Fabio, avvocato

73. Polidoro Riccardo, avvocato

74. Porreca Eustachio, avvocato

75. Pratesi Fabio, Ufficio del Garante dei diritti dei detenuti della Regione Toscana

76. Primavera Daniela, avvocato

77. Ricci Alessandro, avvocato

78. Rocca Alberto, avvocato

79. Romeo Francesco, avvocato

80. Rossi Galante Francesco, avvocato

81. Salvi Giovanni, avvocato

82. Santangelo Marella, professore universitario

83. Santoro Emilio, professore universitario

84. Serci Renata, avvocato

85. Siracusano Fabrizio, professore universitario

86. Siragusa Marco, avvocato

87. Siviglia Agostino, Garante dei diritti dei detenuti di Reggio Calabria

88. Stefano Alessandra, avvocato

89. Talini Marco, avvocato

90. Terranova Gabriele, avvocato

91. Tonarelli Annalisa, ricercatrice

92. Traverso Maura, avvocato

93. Turco Cecilia, avvocato

94. Turco Nausicaa, avvocato

95. Voltolina Maria, Granello di senape

96. Zamperini Adriano, professore universitario

97. Zaru Vanina, avvocato

98. Filippo Bellagamba, Professore universitario

99. Rosa Todisco, avvocato

100. Giannini Roberta

101.Fabrizio Cardinali

102. Andrea Niccolai, avvocato 

 

Dai dati rilevati dal Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione, fino al 29 dicembre 2017 sono sbarcati sulle coste italiane 119.310 migranti nel tentativo e nella speranza di vivere una vita migliore. Il 33,86% in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Circa 60.000 persone in meno i cui destini vengono costantemente e coscientemente ignorati dal nostro governo e dal Ministro dell’Interno, il quale si limita a commentare la situazione con un inverosimile “La luce in fondo al tunnel”.

Il 2017, dunque, si chiude con la più atroce delle conferme: i diritti umani, e il loro rispetto, sono per i nostri politicanti solo parole vuote; le migliaia di uomini e donne e minori che ogni giorno cercano di raggiungere l’Europa nel tentativo di sfuggire a persecuzioni, guerre e miseria diventano carne da macello da vendere a piacimento, e secondo le convenienze, nell’agorà del mercato elettorale.

Il Ministro dell'Interno sa bene che quelle 60.000 persone sono state verosimilmente arrestate e rinchiuse nei centri di detenzione libici, sia quelli “ufficiali” del governo Sarraj, sia quelli “ufficiosi” gestiti dalle mafie e dai clan locali. Minniti e Gentiloni sono ovviamente a conoscenza del fatto che la Libia è un paese non firmatario della Convenzione di Ginevra e che da anni ha istituito veri e propri lager dove la violenza, le torture, gli stupri sono all’ordine del giorno; dove i trafficanti di esseri umani praticano indisturbati sotto gli occhi dei Governi europei il businness del commercio umano, potendo contare sul silenzio di un’Europa complice delle violazioni e terrorizzata dai flussi migratori. Minniti ha attentamente e meticolosamente favorito e messo in atto uno dei più importanti stermini degli ultimi tempi. Secondo l’OIM (progetto Missing Migrants), infatti, nel solo 2017 sono morti 3.116 migranti nel mediterraneo (2.831 nel tentativo di raggiungere le coste italiane), 4 nelle regioni nord occidentali della penisola italiana (nel tentativo di raggiungere la Francia) e 4 in quelle nord orientali, mentre altre 99 persone hanno perso la vita in Libia per "excessive physical abuse".

In questo contesto si chiude, dunque, il 2017. L'anno della legge n. 46 del 13 aprile , la cosiddetta Minniti-Orlando, che ha sostanzialmente compresso i diritti dell'individuo. La legge rappresenta, infatti, la punta dell’iceberg di un sistema repressivo estremo che stringe la sua morsa intorno a chi lotta per una società più giusta e, al contempo, criminalizza quei settori sociali che risultano indesiderabili e indecorosi. E indesiderabili e indecorosi sono i migranti, per i quali vengono istituiti 26 tribunali ordinari di sezioni specializzate, dando vita di fatto ad una giustizia a due corsie. Si elimina il dovere del giudice di ascoltare il richiedente asilo qualora lo stesso faccia ricorso avverso un esito negativo della Commissione territoriale competente, e si sopprime il secondo grado di giudizio. La legge Minniti, in nome della lotta all’immigrazione clandestina, e al fine di rimandare a casa quanti più “irregolari” possibile, istituisce  in ogni regione italiana i cosiddetti Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR), moderni lager etnici che, in perfetta continuità con i Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE) tratterrà in regime carcerario tutti coloro che si saranno macchiati del “reato amministrativo”, istituito dalla L.94/2009; che stanzia milioni di euro per i rimpatri forzati negli inferni dai quali i richiedenti asilo scappano, firmando la loro condanna a morte.

L'anno degli accordi italo-libici, in cui l'Italia, estendendo la validità del primo trattato di amicizia tra l'Italia e la Libia, sottoscritto nel 2008 dall'allora Ministro dell'Interno Maroni con il governo Gheddafi, e rinnovato nel 2012 dalla Ministra Cancellieri, ha stretto accordi con un governo che non ha nè il sostegno popolare nè il controllo del territorio. Il trattato prevede che l'Italia finanzi infrastrutture per il contrasto all'immigrazione irregolare, formi il personale e fornisca assistenza tecnica alla guardia costiera libica: il premier Sarraj ha richiesto 10 navi, 10 motovedette, 4 elicotteri, 24 gommoni, 10 ambulanze, 30 jeep, 15 automobili, 30 telefoni satellitari, mute da sub, binocoli diurni e notturni, bombole per ossigeno. L'equivalente di 800 milioni di euro (soldi verosimilmente prelevati dai finanziamenti per la cooperazione con l'Africa, in contrasto con gli obiettivi previsti dagli stessi finanziamenti). Ma oggi, nella Libia in costante guerra civile, chi deve pattugliare le coste e controllare le frontiere è direttamente coinvolto nel traffico di uomini. Lo gestisce, e ci guadagna. Secondo un rapporto ONU del 1 giugno 2017 il capo della Guardia costiera di Zawiyah, una città vicino a Sabratha, è contemporaneamente a capo di una milizia in combutta coi trafficanti.

Il 6 novembre una nave dell’ONG tedesca Sea Watch, durante una delle operazioni di soccorso a 30 miglia dalle coste libiche, ha documentato e denunciato la condotta violenta dei guardacoste libici verso i migranti appena soccorsi. Durante l’operazione, i libici non hanno calato i gommoni per il salvataggio, hanno lasciato annegare un uomo in mare e hanno ostacolato l’intervento della nave dell’ong tedesca lanciando contro la stessa patate, senza preoccuparsi di chi fosse ancora in acqua. Gennaro Giudetti, uno dei volontari a bordo della Sea Watch, ha raccontato che almeno trenta persone sono morte davanti agli occhi dei soccorritori, mentre i libici frustavano, picchiavano e prendevano a bastonate le persone a bordo della loro motovedetta (donata dal governo italiano) che cercavano di buttarsi in mare per arrivare verso la nave della ong tedesca. Tra i morti un bambino di due anni, il cui corpo è stato recuperato dallo stesso Giudetti.

Ma impedire a migliaia di disperati la partenza verso paesi potenzialemente più sicuri significa in questo caso condannarli ad un destino atroce. Un destino fatto della schiavitù, degli stupri, delle violenze, degli omicidi documentati da numerose inchieste giornalistiche che tanto scalpore hanno suscitato in numerose nazioni europee (il presidente francese Macron in seguito all'inchiesta della CNN ha chiesto una riunione urgente del Consiglio di Sicurezza dell'ONU), fuorchè in Italia. Il 14 novembre scorso, l'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, Zeid Ra’ad Al Hussein, ha commentato le politiche dell’Unione Europea e dell’Italia a sostegno dei Centri di detenzione in Libia e della Guardia Costiera Libica nell’intercettazione e nel respingimento dei migranti nel Mediterraneo come "un oltraggio alla coscienza dell’umanità".

L'Italia ha, dunque, deciso di stringere accordi con un Paese in cui le vittime umane non contano nulla e dove i diritti umani non sono neanche un "compromesso". In palese violazione dell'art. 33 della Convenzione di Ginevra (non firmato dalla Libia), in cui si prevede che “nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza ad un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche.”

L'anno dei presunti accordi con milizie libiche, così come riportato dall'agenzia americana Associated Press, che cita numerose testimonianze, tra le quali anche quella di un portavoce delle stesse, puntualmente smentiti dalla Farnesina. La Associated Press parla di due milizie coinvolte con base a Sabrata: la Brigata 48, che l'agenzia di stampa britannica Reuters aveva già indicato come struttura che materialmente impediva ai barconi carichi di migranti di prendere il mare, dietro finanzaimenti ricevuti direttamente dal governo di Tripoli, e la Al Ammu, che si occuperebbe dal 2015 della sorveglianza dell'impianto petrolifero di Melitah che l'ENI gestisce con la National Oil Corporation libica.

Secondo quanto affermato da Bashir Ibrahim, definito dalla Associated Press come il portavoce di Al Ammu, e confermato da Abdel Slam Helal Mohammed, un dirigente del Ministero degli Interni del governo di Tripoli, le milizie avrebbero raggiunto un accordo "verbale" con il governo italiano saltando a piè pari la mediazione del governo Sarraj. "Come contropartita ricevono attrezzature, barche e stipendi", ha spiegato Ibrahim.

L'anno della contemporanea criminilazzazione delle ONG che operano nel Mediterraneo, alle quali è stato imposto un Codice di Condotta verosimilmente mirato a "sgomberare" il Mediterraneo dalle Organizzazioni Umanitarie tanto sgradite al governo libico di Sarraj. Abbiamo consegnato alla Guardia Costiera libica, da noi ulteriormente addestrata e rifornita anche e non solo di mezzi navali, il controllo armato delle coste e del tratto di Mar Mediterraneo e la relativa giurisdizione sulle barche, i pescherecci, i gommoni ed i barconi sui quali viaggiano i migranti in fuga, ignari che la loro sarà solo una partenza fasulla, che verrà pagata a caro prezzo e che non li porterà in Europa ma li rimanderà in Libia. Il giro della morte. Sarà la Guardia Costiera ad autorizzare le navi ad entrare nella nuova zona di SAR, Guardia Costiera vera o millantata pronta a sparare non sui trafficanti collusi ma sulle navi delle associazioni umanitarie indipendenti.

L'anno delle circolari ministeriali dedite a creare sempre più irregolari sul territorio nazionale. La Circolare n. 5 del 18 maggio 2017 della Direzione Centrale per i Servizi Demografici del Ministero dell'Interno, richiamante l'art.8 del D.L. 17/02/2017, infatti, introduce una speciale procedura di cancellazione della residenza anagrafica dei richiedenti asilo, ma contestualmente, conferma il diritto all'iscrizione in anagrafe dei cittadini stranieri in ogni struttura di accoglienza, così come già previsto nella normativa in vigore.

Un anno in cui, ad ogni modo, la "malaccoglienza" italiana, per la quale il nostro Stato è stato più volte richiamato e condannato dall'Unione Europea e dalla Corte Europea per i Diritti Umani, non si è fatta desiderare. Sono continuati, infatti, le carenze/assenze di servizi, gli abusi di operatori e gestori dei centri di accoglienza, le proteste dei migranti ospiti, le gestioni affidate a clan mafiosi/ndranghetistii e/o a loro affiliati, le morti imputabili a mancata assistenza sanitaria o a una "giustizia fai da te" da parte di cittadini esasperati da un clima di tensione e di odio minuziosamente e tenacemente alimentato. un'emergenza nell'accoglienza che dura da 8 anni senza che mai si sia anche solo provato a pensare e costruire un sistema diverso.

Questa campagna e le associazioni che ne fanno parte monitorano e denunciano da anni le inadempienze del sistema. È necessario lavorare sul serio a soluzioni in grado di salvaguardare i diritti delle persone che non siano meri slogan. 

Questo è stato l’anno nel quale la campagna LasciateCIEntrare ha divulgato “un’atto d’accusa” sula gestione delle politiche migratorie che l’Italia, con o senza Unione Europea, sta conducendo “contro” i diritti di milioni di uomini e donne e minori migranti e rifugiati. Non basta un volo umanitario per scaricarsi le responsabilità di fronte all’opinione pubblica.

 Rileggi il nostro #NOIVIACCUSIAMO 

Sono all’incirca 14.000 i minori non accompagnati sbarcati in Italia, dall’inizio del 2017 ad oggi. Spesso partono senza i genitori. Talvolta li perdono durante il viaggio. Molti quelli che arrivano dopo aver visto morire padri e madri, massacrati nei lager libici o affogati in fondo al Mediterraneo. Portano impressi sulla pelle e nella mente i segni delle violenze subìte durante il viaggio.

Tristi testimoni, assieme alle donne, di una pratica sempre più in auge nelle carceri libiche: lo stupro.

Parcheggiati, il più delle volte e per un tempo indeterminato, all’interno di centri di accoglienza inadeguati e insicuri. Piccoli uomini e donne cresciuti in fretta all’interno di una società distratta che affoga in un mare di indifferenza e di ipocrisia. In barba a leggi, a trattati e a convenzioni internazionali! Un numero considerevole di quelli accolti all’interno dei centri di accoglienza, scappano dalle strutture. Altri rimangono ma rientrano solo per dormire.

A testimonianza di un sistema di accoglienza assolutamente inadeguato e inefficiente che delega le vite dei minori nelle mani di cooperative improvvisate e di attori sociali di dubbia integrità. In molte occasioni li abbiamo incontrati, abbiamo parlato con loro, ci siamo vergognati della nostra impossibilità di offrire loro risposte rassicuranti. Dimenticati dallo stato e dalla società, mentre chi sarebbe deputato a occuparsene fa business sulla loro pelle. Gravi carenze si registrano all’interno dei centri di accoglienza: mancanza di acqua calda e di riscaldamenti, nonostante le temperature rigide di alcuni periodi dell’anno; ritardi o mancate erogazioni del pocket-money; abusi e soprusi da parte di operatori; vestiti inadeguati per il periodo (alcuni portano addosso ancora i vestiti che indossavano al momento dello sbarco); cibo di scarsa qualità; mancata nomina del tutore.

Senza considerare le misure di tutela psicologica completamente assenti nei confronti di bambini che hanno affrontato e che si trovano ad affrontare tutta una serie di sfide: l’angoscia della fuga, i pericoli, i lutti e le paure provate durante il viaggio, le torture e gli stupri, le sfide di adattamento che li aspettano al momento dell’arrivo in Italia e, ancora, gli ulteriori abusi ai quali possono essere sottoposti.

Destano in noi molti timori, dunque, le segnalazioni che ci arrivano da alcuni centri di accoglienza vibonesi per minori stranieri non accompagnati. A Brognaturo così come a Mongiana, a Joppolo così come a Filadelfia e a Bivona.

Chiediamo dunque, con forza, ai Sindaci dei comuni interessati, al Presidente della Regione Calabria, al Prefetto, al Garante per i Diritti dei Minori, di voler predisporre ogni opportuna azione al fine di garantire ai minori presenti nei suddetti centri l’effettivo esercizio dei diritti di cui sono titolari ed evitare l’adozione di provvedimenti che possono essere gravemente lesivi di tali diritti, consapevoli tutti che disinteresse e indifferenza non sono crimini meno deplorevoli della violenza che già ha sconvolto le loro fragili vite.

Aggiornamento del 03 gennaio 2018: Si ringrazia il Garante per l'Infanzia e l'Adolescenza della Regione Calabria, Antonio Marziale e il coordinatore della Consulta MSNA, Maurizio Alfano, per la  pronta presa in carico della nostra segnalazione. Per saperne di più, clicca qui.

 

 

 

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